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IL VESCOVO AI POLITICI
“Costruiamo un futuro di speranza”
Crisi e criminalità tra i temi scelti

Il vescovo Petrocchi

LATINA – I temi dell’economia e del lavoro sono stati al centro del tradizionale discorso ai politici che il vescovo di Latina Monsignor Giuseppe Petrocchi ha tenuto nel corso della Messa celebrata il 1 gennaio 2012 nella Cattedrale di San Marco. Parlando ai rappresentanti delle istituzioni, agli Amministratori pubblici e ai rappresentanti delle parti sociali in occasione della Giornata mondiale della Pace, Petrocchi ha parlato a chiare lettere della crisi che investe il territorio pontino, invitando i politici “a leggere correttamente i “segni dei tempi”per dare risposte pronte, sagge e condivise. Per riuscire in questa impresa, bisogna mettersi “in rete” ed attivare, a tutto campo, un confronto leale e costruttivo. Ciò richiede – ha detto Petrocchi – anzitutto, il coinvolgimento sinergico e competente di tutte le forze politiche: sia della compagine di governo come anche dei quadri della opposizione. Un appello è stato rivolto alla politica perché “coltivi l’arte di comunicare e di motivare, creando sulle scelte-cardine un consenso ragionevole”. Molti i riferimenti all’attualità nel discorso tenuto da Petrocchi che nelle conclusioni non ha mancato un invito “a mantenere alta la guardia contro ogni forma di infiltrazione malavitosa, sia che si tratti di criminalità organizzata che di “clan” delinquenziali a “scarto locale”. “Esprimo, a nome mio e della comunità ecclesiale, il convinto apprezzamento per quanto la magistratura e gli organi deputati all’ordine pubblico stanno facendo, con dedizione e professionalità, per assicurare alla nostra comunità legalità, sicurezza e una serena convivenza”.

IL TESRO INTEGRALE.

PER COSTRUIRE INSIEME UN FUTURO DI SPERANZA

Carissimi Amici, impegnati, a vario titolo, nel servizio alla Comunità civile: insieme e uno ad uno vi abbraccio fraternamente nel Signore.

Penso che nel 2012 – nonostante la profezia Maya – non vedremo la fine “del” mondo, ma certamente assisteremo alla fine “di” un mondo: quello post-moderno, poggiato sull’illusione di una economia – prevalentemente finanziaria – ad espansione illimitata e largamente gravitante sull’area occidentale del pianeta.

In particolare, i fatti eclatanti di questi ultimi anni dicono a noi, abitanti della zona europea, che non siamo più i primi della classe. Popoli che, nei decenni passati, venivano considerati “vagoni aggiunti” al grande treno dell’economia mondiale, oggi sono diventati locomotive industriali che trainano i processi produttivi e commerciali dell’intero globo. Inoltre, l’assetto centrato sull’iper-liberismo, lungamente teorizzato e praticato, sembra essere imploso con la crisi finanziaria del 2008 e l’onda anomala di quel sisma – che si è abbattuta con risultati catastrofici sull’apparato produttivo di molte nazioni europee – non ha risparmiato le nostre aziende. Corriamo il rischio di una grave “mattanza” industriale: infatti, molte ditte del comparto pontino (sia di ampia portata come di tipo artigianale), sono in stato pre-comatoso.

Gli esperti dicono che ci troviamo di fronte ad una crisi non congiunturale, ma sistemica. Non si tratta, infatti, di recuperare anomalie funzionali ricorrendo ad interventi rapidi e circoscritti, ma si rende necessaria l’adozione di misure strutturali, che modificano l’apparato organizzativo e i moduli di scambio dell’economia mondiale. Per questo, l’“inverno economico” in cui siamo entrati si preannuncia lungo: i rischi di questa “glaciazione” si fanno imponenti e i suoi costi appaiono alti. Secondo molti analisti, la “stretta finanziaria” – con annesso rischio-recessione – è destinata ad abbattersi su tutti, ma con vari effetti e differente intensità: i ricchi vengono toccati sul superfluo, i poveri colpiti sul necessario. Non basta, infatti, applicare parametri solo numerici per fare giustizia. Mi si consenta di fare un esempio: un padre di famiglia, che percepisce uno stipendio di 1.200 euro, se vede aumentare il costo medio della vita di 100 euro mensili, subisce un danno molto più grande di un manager che si trova a fronteggiare un aumento di costi pari a 1.000, avendo però un reddito di 10.000 euro. Nel primo caso sono i bisogni primari ad essere intaccati, nel secondo, invece, quelli accessori e periferici. Il coefficiente di esposizione alla sofferenza, dunque, avanza in linea inversamente proporzionale al salario: si alza tanto più, quanto più basso è il reddito.

Alcuni termini, prima di esclusiva pertinenza dei bancari, oggi rimbalzano quotidianamente sul grande scenario dei mass-media, creando sconcerto e diffusa ansietà. Ormai siamo tutti investiti dalla “sindrome dello spread” e l’altalena della borse viene avvertita, dalla quasi totalità della popolazione, come un’incombente minaccia. Si ha l’impressione, inoltre, che larga parte del nostro destino economico e sociale sia nelle mani di speculatori e di centri di potere senza volto né nome: il che rende ancora più oscuro e angosciante l’avvenire.

Appare motivato immaginare che, nel nostro Paese, si dilaterà e aggraverà la fascia della povertà: che parte dai nuclei familiari non in grado di arrivare alla fine del mese e giunge fino agli indigenti, che vivono sotto la soglia del minimo necessario. Ciò chiede di allertare l’attenzione sociale e di convogliare gli interventi pubblici, affinché non siano i più deboli a pagare il prezzo più alto. Il livello di una civiltà, infatti, si valuta dalla sua capacità di incontrare e aiutare le categorie più disagiate: per questo, la sollecitudine verso i poveri costituisce il vero criterio per misurare la giustizia. Come profeticamente scriveva don Mazzolari: «ridurre lo star male del prossimo non è sempre possibile, ma non rassegnarsi sulla miseria dei poveri è sempre possibile» . Anzi, la tenacia di non arrendersi e la volontà di combattere contro la piaga della povertà rappresentano la prima testimonianza cristiana ed umana.

 

Leggendo le encicliche e i pronunziamenti dei Pontefici degli ultimi decenni è impressionante constatare come la traiettoria in caduta della finanza globalizzata e il conseguente grave impatto sociale siano stati lucidamente previsti e con largo anticipo denunciati dal Magistero della Chiesa. Soprattutto gli interventi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI hanno vigorosamente preannunciato che una economia non centrata sul primato della persona e dominata dalle sole logiche di profitto, dopo qualche periodo di baldanza dei mercati, si sarebbe inevitabilmente collassata, provocando pesanti dissesti sociali, specie a carico dei settori più fragili della popolazione. Con una chiarezza senza anestetici Benedetto XVI ha sottolineato, ancora una volta, che le radici della crisi che sta avvolgendo la nostra società sono anzitutto culturali e antropologiche .

Proprio così. La causa di questa eclissi dell’economia planetaria è anzitutto spirituale. Il nostro mondo – specie quello occidentale – denuncia un deficit d’anima. La storia dimostra che quando una civiltà abbandona i sentieri di Dio finisce inevitabilmente per smarrirsi e cadere in precipizi profondi, in cui viene schiacciata la dignità della persona. Infatti: «laddove l’uomo si fa unico padrone del mondo e proprietario di se stesso, non può esistere la giustizia. Là può dominare solo l’arbitrio del potere e degli interessi» . Occorre, perciò, abbandonare «la ricorrente tentazione di costruire la città degli uomini a prescindere da Dio o contro di Lui. Quando, infatti, ciò si verificasse, sarebbe la stessa convivenza umana a conoscere, prima o poi, una irrimediabile sconfitta» . Appare urgente, pertanto, provvedere ad abbondanti trasfusioni di “sangue etico” nelle vene sfibrate della nostra società. Occorre ripartire dal “cuore” del mondo: cioè dalla sua capacità di accogliere e pulsare i valori della verità, dell’amore, della giustizia e della solidarietà. Solo la conversione ad un umanesimo plenario e aperto al trascendente potrà curare le patologie economiche, culturali e relazionali che ci affliggono.

Tuttavia, per il credente, non ci sono margini per il pessimismo, poiché egli sa che la storia, nonostante tutto, resta saldamente nella mani di Dio: per questo, nell’odierno Messaggio, il Papa invita tutti a non cedere allo scoraggiamento davanti alle tribolazioni e a guardare l’anno che inizia con atteggiamento fiducioso .

È importante per tutti, ma in particolare per voi, carissimi Amici impegnati in politica, leggere correttamente i “segni dei tempi”: sia per valutare le acute variazioni di “clima” nella finanza internazionale, come anche per studiare la “meteorologia” socio-economica locale. La gravità della situazione esige essenzialità e chiarezza nelle analisi, come anche risposte pronte, sagge e condivise.

Come è noto, la nostra terra non è provvista di risorse minerarie, ma è ricca di alcune preziose “materie prime”: si chiamano “cerebrum”, “cor”, “labor”, “inventio” (cioè, intelligenza, cordialità, laboriosità, creatività). Occorre, allora, intercettare e valorizzare questo ingente patrimonio umano e civile, affinché, attraverso una robusta solidarietà e una lungimirante intraprendenza, possa esprimere energie che ci consentano di vincere le sfide del nostro tempo e di edificare una società a misura d’uomo. Per riuscire in questa impresa, bisogna mettersi “in rete” ed attivare, a tutto campo, un confronto leale e costruttivo. Ciò richiede, anzitutto, il coinvolgimento sinergico e competente di tutte le forze politiche: sia della compagine di governo come anche dei quadri della opposizione. È fondamentale, pertanto, superare l’animosità degli antagonismi irriducibili per entrare sempre più negli spazi del dialogo aperto e convergente, animato dalla ricerca del bene comune. Schierarsi su fronti contrapposti e scavare trincee ideologiche, da dove condurre attacchi alla baionetta contro gli avversari, rappresenta sempre un male, ma oggi è un male nel male. La guerra ad oltranza procura solo danni e lascia macerie. Solo la paziente “agorà” delle idee, delle buone intese e della sana dialettica costituisce lo spazio democratico dove fiorisce la “res pubblica”, cioè il bene di tutti e di ciascuno. L’“agone” politico non deve trasformarsi in “agonia” della politica. Siamo tutti chiamati a diventare sentinelle attente, che vigilano sull’interesse generale, per difenderlo da incursioni egoistiche: individuali o di gruppo.

Chi riveste pubbliche mansioni è tenuto ad avere buoni filtri veritativi e a rifornirsi presso limpide sorgenti etiche, guardandosi dall’attingere a falde cognitive e comportamentali inquinate. Per superare questo “guado epocale”, che appare torrentizio e molto pericoloso, non bastano le tecnologie di vertice e gli artifici di casta: bisogna, invece, suscitare convinzioni allargate e attivare processi effettivi di partecipazione popolare. Per conseguire questi risultati si deve ripartire dall’uomo (non sezionato nei suoi bisogni o suddiviso in aree psichiche compartimentalizzate, ma considerato nella sua interezza), testimoniando e trasmettendo gli alti ideali che debbono ispirare la vita sociale. La comunità civile va costruita nel cuore della gente, se no a poco servono le normative emanate e le misure varate all’esterno. Infatti, «la “città dell’uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione» .

Ciò richiede il ricorso ad un quotidiano esame di coscienza, che porta a distinguere tra “motivazioni-paravento” e “motivazioni-motrici”. Le prime rappresentano coperture verbali e scenografiche, che mascherano la verità invece di svelarla; le seconde, invece, dichiarano apertamente le cause effettive degli eventi e consentono la formazione di una coscienza sociale ben informata e coinvolta. Per questo, sia il politico di lungo corso come il debuttante che si affaccia sulla scena politica debbono spiegare il “perché” profondo delle loro scelte e soprattutto il “per chi” delle strategie che adottano: cioè indicare quali sono i soggetti che vengono, di fatto, avvantaggiati dalle decisioni prese.

Va pertanto ben coltivata e praticata l’arte di comunicare e di motivare, creando sulle scelte-cardine un consenso ragionevole (quindi, non “dopato” o estorto), evitando le “aurore boreali” discorsive, costituite da declamazioni affascinanti ma inconsistenti, come anche i “fuochi fatui” delle promesse fatte e non mantenute. Occorre riguadagnare la capacità di cercare il bene comune, sapendolo riconoscere e attuare dove esso sta: oltre il muro delle logiche di potere, delle alleanze lottizzate, dei patronati e delle amicizie clientelari. Si tratta di lavorare insieme per favorire la formazione di un “popolo” unito e variegato, capace di comporre una polifonia sociale, bene accordata nella molteplicità delle voci che la contrassegnano.

L’obbligo morale di garantire il proprio apporto alla vita politica vale per tutti: in primo luogo per coloro che si professano discepoli del Signore. Per loro è sempre attuale il grave monito del Concilio: «il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna» (GS, n. 43). Tale responsabilità nasce dalla consapevolezza che «Gesù ha fatto piena luce sulla realizzazione del vero bene comune dell’umanità. Verso Cristo cammina e in Lui culmina la storia: grazie a Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui, ogni realtà umana può essere condotta al suo pieno compimento in Dio» .

La saggezza di un buona amministrazione si coglie dall’ordine delle priorità che si assegna e che persegue con tenacia.

Il Santo Padre, dandoci il suo Messaggio per il 2012, esorta tutte le soggettività sociali a mettere al centro della loro attenzione i giovani, che camminano verso un futuro denso di nubi. È compito di ogni adulto accogliere, capire e valorizzare le nuove generazioni, per accendere o rafforzare in loro la speranza in un avvenire migliore, attestando – a parole e con i fatti – che tutto vince l’amore e che è possibile (e perciò doveroso) spendersi generosamente per edificare il mondo sui pilastri della giustizia e della pace. «Si tratta di comunicare ai giovani – sottolinea il Papa – l’apprezzamento per il valore positivo della vita, suscitando in essi il desiderio di spenderla al servizio del Bene» .

In tale impegno educativo, è centrale il tema del lavoro, che va sottratto ai lacci della incertezza e della precarietà. Da anni, nel nostro territorio, registriamo il triste fenomeno di una intensa migrazione giovanile: una “transumanza professionale” che impoverisce di competenze e di risorse umane l’intera comunità pontina. Questi “esuli” del lavoro – diventati ormai una folla – lanciano un “grido muto”, che chiede di essere ascoltato ed esige risposte corali ed efficaci.

Il discorso dell’impegno mirato alla formazione integrale delle giovani generazioni chiama in campo – insieme agli organismi istituzionali, sociali e scolastici – la famiglia, che rappresenta lo “spazio” fondamentale ed insostituibile in cui si viene educati alla buona prossimità, alla socialità virtuosa e all’autentica libertà. La famiglia – lo sappiamo – è oggi sottoposta a spinte disgreganti che la minacciano, dissolvendo il suo ruolo di cellula centrale e fontale della società. Tra queste dinamiche erosive vanno menzionate le condizioni di lavoro spesso poco armonizzabili con le responsabilità genitoriali; i ritmi di vita frenetici; la inadeguatezza del reddito, che proietta fosche ipoteche sul futuro; la insufficienza delle strutture di servizio; la scarsa attenzione alle esigenze reali della comunità famigliare, specie se numerosa .

Il pensiero va ai papà e alle mamme che fanno fatica ad assicurare ai loro figli una vita dignitosa: in particolare accompagno con la preghiera costante quanti rischiano di perdere il lavoro o cercano, senza risultati, di trovarlo in modo stabile e onestamente retribuito.

Rivolgo un cordiale invito – che so pienamente condiviso – a mantenere alta la guardia contro ogni forma di infiltrazione malavitosa, sia che si tratti di criminalità organizzata che di “clan” delinquenziali a “scarto locale”. Esprimo, a nome mio e della comunità ecclesiale, il convinto apprezzamento per quanto la magistratura e gli organi deputati all’ordine pubblico stanno facendo, con dedizione e professionalità, per assicurare alla nostra comunità legalità, sicurezza e una serena convivenza.

Nessuno può sentirsi esentato dal contribuire – secondo la modalità che gli è propria – alla costruzione di una società più equa, prospera e fraterna. Il mondo cambia nella misura in cui ciascuno di noi migliora se stesso.

Sappiamo bene che questa nostra terra è stata privilegiata dal Cielo con molti doni: possa essere valorizzata e resa dimora pienamente umana da coloro che la abitano!

 Giuseppe Petrocchi

vescovo

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