LATINA – L’ha intitolato “In memoria di Daniele Nardi”, ed è una riflessione e un pensiero sulla vita e sulle sfide affrontate dall’alpinista di Sezze che ha perso la vita sul Nanga Parbat nel corso di una missione che in molti hanno definito suicida, ma che era il frutto di un lavoro scrupoloso e “maniacale”, come ha specificato il meteorologo della spedizione, Filippo Thiery in questa intervista. Le parole sono quelle di Antonio Pennacchi, il premio Strega di Latina che ha inquadrato il pensiero di tanti: “chi glielo ha fatto fare?”. La risposta si può trovare guardando i video che ogni giorno Daniele postava sui suoi profili social e ascoltando le persone che lo hanno conosciuto, il suo sogno non si poteva fermare. E Pennacchi risponde così: “Prima o poi si muore tutti in questo mondo, pure quelli che restano a casa”.
ECCO IL TESTO INTEGRALE
In giro per Latina oltre che per i social c’è chi dice: “Ma chi glielo ha fatto fare? Come gli salta per la testa, a uno di Sezze, di andare fino sopra all’Himalaya, al Nanga Narbat, con moglie e un figlio piccolo a casa? Non glielo aveva detto pure Messner: rinunciate, non andateci?”. Be’, con tutto il rispetto per Messner, credo però che non ci sia stato nessuno – tra tutti quelli che lo hanno conosciuto sia a Sezze che a Latina, a cominciare dalla madre – che non gli abbia detto chissà quante volte: “Non partire Danie’, stàttene alla casa!”
Ma lui ti guardava con quegli occhi bambini, e poi sorrideva: “Debbo andare per forza”.
“Pìgliatela in quel posto, allora, adesso” dicono sui social o in giro per i bar, dimenticando che – prima o poi – si muore tutti a questo mondo, pure quelli che restano a casa. Pure giovani giovani, magari in macchina sulla Pontina o una Migliara, quando non proprio dentro il bagno di casa, scivolando sulla saponetta. Muoiono perfino quelli che non fumano – quelli che non hanno proprio mai fumato, mai drogato, mai bevuto, pensa tu! – mentre certi che fumano arrivano pure a cent’anni. C’è poco da fare: prima o poi si muore tutti e non conta – alla fine – come si muore, ma come si è vissuto.
Non c’è essere umano che – da bambino o adolescente – non abbia sognato di fare, da grande, ciò che nessun altro aveva mai fatto: nel lavoro, nello sport, nell’arte, nella scienza o nell’avventura. Poi man mano, crescendo, la maggior parte si adegua agli standard del reale e cerca una vita pressappoco uguale a quella degli altri: “Perché chiedere di più?”
Ci sono invece quelli – una minoranza – a cui il fuoco non si spegne con la crescita, a cui il fuoco rimane. A loro non basta una vita normale. Debbono sempre osare e stirarla al massimo: sempre in cerca di guai, sempre in bilico sull’orlo per superare il limite. Pensano un’impresa e subito la tentano, e più è difficile e più gli viene voglia: “Non l’ha fatta mai nessuno? Be’, è per questo che la debbo fare io. Se no chi la fa?”. Pensa solo a quanta gente è morta, prima che imparassimo a volare.
Quelli che vanno in cerca di guai ci servono come il pane. Svolgono una fondamentale funzione cosmica, prima ancora che sociale. E’ una legge della fisica: non possiamo essere tutti perfettamente uguali, non esiste in natura la normalità. Pure se vai in spiaggia da Capo Portiere a Rio Martino e ti metti con il microscopio, tu non troverai due chicchi di sabbia perfettamente identici. Ora noi umani siamo sostanzialmente tutti uguali e le spinte che animano il conscio e l’inconscio di quella minoranza – quelli che, quando tutti guardano da una parte, loro invece guardano da un’altra: per terra, di lato, per aria o comunque oltre; i divergenti – quelle stesse spinte le abbiamo tutti, dentro. La maggioranza poi le reprime, per il fortissimo impulso a conformarsi agli altri, a sembrare in tutto e per tutto uguali per essere accettati dagli altri, amati e rassicurati.
Per fortuna però ci sono pure quelli come Daniele Nardi – ma come anche Tom Ballard e Virginia Chimenti del resto, la volontaria Onu di Cisterna caduta l’altro giorno col Boeing in Etiopia, mentre era in volo per Nairobi – che quelle spinte non le hanno represse ed hanno vissuto fino in fondo la voglia di divergere, di scoprire l’ignoto e superare i limiti imposti.
Se non ci fossero al mondo quelli come loro – quelli che con gli occhi bambini e col sorriso sulle labbra sfidano l’inviolabile – noi staremmo tutti ancora all’età della pietra, anzi, pure prima: sopra le piante come ogni altra specie di scimmie, nel centro dell’Africa, a mangiare banane. Quando il primo di noi – un milione e mezzo d’anni fa – è sceso dall’albero, ha raccolto una pietra e con questa pietra ne ha scheggiata un’altra per farne un utensile e s’è levato in piedi in mezzo alla savana, a vedere se per caso passasse una gazzella, noi tutti in coro, da sopra all’albero, gli strillavamo: “Che cazzo stai a fa’? Torna subito qua sopra, che là sotto ti si mangiano i leoni”.
Invece è lì che è nata la civiltà – la tèkne, lo sviluppo – il primo passo della civilizzazione, con tutti noi che dietro a lui, mano mano, siamo scesi dall’albero e un passo dopo l’altro, seguendo loro, siamo arrivati dove siamo, alle navicelle spaziali oramai pronte per la conquista dello spazio. Ogni singolo progresso dell’umanità è dovuto a quei pochi – come Daniele Nardi – nati e cresciuti con il fuoco dentro e privi del normale senso del limite. Li dovremmo solo ringraziare.
Ciao, Daniele. Riposa in pace col tuo amico Tom Ballard. Vi sia lieve la neve che vi copre.
Un pensiero ai vostri cari.