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scuola criminale

Movida Latina, gli arrestati destinati a prendere le redini del clan Di Silvio. I due nuovi pentiti

Il gip: "Metodo tipicamente riconducibile alle mafie tradizionalmente intese"

LATINA – Destinati a prendere in mano le redini del clan Di Silvio ne avevano imparato bene e, da tempo, messo in atto i metodi. Così i pentiti, i primi che hanno scelto la strada della collaborazione con la giustizia, Renato Pugliese e Agostino Riccardo, e più di recente, i nuovi, Maurizio Zuppardo ed Emilio Pietrobono, hanno raccontato agli inquirenti della Dda di Roma, le nuove leve del clan, i giovani  arrestati lunedì mattina per una serie di reati aggravati dalla modalità mafiosa: violenza privata, minacce, estorsioni.

Sono state le indagini della squadra mobile guidata dal vice questore aggiunto Giuseppe Pontecorvo a documentare gli episodi che hanno portato all’operazione “Movida Latina” scattata su ordinanza del gip di  Roma che ha raggiunto i figli di Romolo (uno dei capiclan ora in carcere per l’omicidio di Fabio Buonamano), Antonio detto Patatino e Ferdinando detto Prosciutto di 23 anni, ma anche il figlio di Costantino “Patatone” Di Silvio, Ferdinando detto Pescio, il fratello di Romolo, Costantino detto Costanzo, e il trentenne Luca Pes.

La forza intimidatrice del clan, la fama criminale che li accompagnava è provata anche dall’omertà diffusa: nessuno denunciava spontaneamente, ma solo quando la polizia, nel corso delle indagini, ha contattato le vittime delle estorsioni e delle minacce, sono venuti fuori i racconti.

I nuovi pentiti hanno spiegato ai magistrati dell’Antimafia – che da tempo hanno acceso i riflettori sulla criminalità organizzata pontina che stanno ricostruendo pezzo a pezzo –  come avveniva l’acquisto di armi, lo spaccio, il controllo sui pusher e sulle zone, gli affari e i “summit” in cui si decidevano le azioni da compiere.

Il Gip del Tribunale di Roma Rosalba Liso, chiamata a decidere sulle richieste di arresto presentate dai pm Spinelli, Fasanelli, Calò e Zuin, ha messo nero su bianco che i reati  venivano commessi con “l’utilizzo di un metodo tipicamente riconducibile alle mafie tradizionalmente intese e caratterizzato in primo luogo dalla prospettazione di ogni ritorsione alle vittime in chiave plurale, dal riferimento esplicito al clan quale segno di appartenenza al sodalizio, per esaltare l’efficacia intimidatoria delle condotte”.

Nessuno degli indagati è detenuto nel carcere di Latina e per rogatoria si svolgeranno nelle prossime ore gli interrogatori di garanzia.

 

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